Quiet quitting: che cos'è e come prevenirlo

L’hashtag #quietquitting ha animato l’estate un po’ ovunque, oscurando il mito delle #GreatResignation, le dimissioni volontarie senza avere un altro lavoro. Il quiet quitting, ovvero la consuetudine di lavorare il minimo indispensabile, è diventato in breve tempo un fenomeno ripreso da tutti i media e analizzato dagli esperti di lavoro e organizzazione di tutto il mondo.
12/10/2022

Diffusosi soprattutto negli ultimi anni, verso la fine delle restrizioni dovute al Covid, il quiet quitting è diventato in breve tempo una vera tendenza, un fenomeno di visualizzazioni su TikTok che ha attirato l’attenzione degli esperti di lavoro e di tecniche organizzative. 

Una valanga di reazioni che potrebbero anche apparire ingiustificate, considerando cosa c’è dietro questo inconsueto hashtag: quando si parla di quiet quitting, il significato è quello di lavorare esclusivamente secondo quanto previsto dalla propria posizione e dal proprio contratto. Questo vuole dire evitare di fare straordinari, di impegnarsi di più o di collaborare a progetti che comportano ulteriori responsabilità. 

Le interpretazioni del fenomeno quiet quitting sono le più varie: qualcuno lo ha visto come una sorta di silenziosa rassegnazione da parte di chi non ha il coraggio di dare le dimissioni, altri pensano sia il segnale di una svolta verso un dilagante fannullonismo, altri ancora (ad esempio l’Harvard Business Review) lo ritengono l’effetto dirompente dell’incapacità dei manager di costruire un rapporto positivo con i collaboratori e di conciliare gli obiettivi aziendali con il benessere dei dipendenti. 
Del quiet quitting in Italia e nel mondo, e del suo impatto sul lavoro anche nel nostro paese, ne abbiamo parlato con Carlo Furgiuele, Senior HR Consultant. 

 

Quiet Quitting: cosa è esattamente? Nel mondo del lavoro rappresenta una novità?


Usando un’espressione anglosassone direi che parlare di
quiet quitting e lavoro è il tipico esempio di “elephant in the room”, qualcosa di cui tutti conoscono l’esistenza e di cui nessuno però vuole parlare.

Il fatto che abbia avuto così tanto successo sui canali Social conferma che si tratta di una situazione in cui molti si riconoscono, sicuramente accentuata dal Covid e dal ribaltamento dei valori che ne è seguito.

L’ingegnere americano che si ritiene abbia lanciato il fenomeno del quiet quitting non ha fatto altro se non mettere il valore della persona al centro, sganciando questo valore dalla sfera lavorativa. E mettendo l’accento sul fatto che il lavoro non può essere una dimensione totalizzante nella vita delle persone. Cosa vuol dire quiet quitting infatti? Semplicemente lavorare quanto basta per rispettare il contratto, senza alcun coinvolgimento né senso di responsabilità.

È un fenomeno silenzioso: in sostanza le persone perdono l’investimento emotivo nella dimensione lavorativa e si limitano ad adempiere quelli che sono i loro obblighi e doveri, senza però aggiungere quell’ingrediente fondamentale nella riuscita di ogni processo che è la passione.

 

Come si può affrontare in modo positivo il quiet quitting?


Qui secondo me si apre uno scenario, perché la passione è qualcosa che deve essere creata dal contesto in cui le persone lavorano, quindi in ultima analisi dalla leadership. Spesso però nelle organizzazioni la dimensione del tempo offusca tutte le altre: ci sono deadline e tempistiche da rispettare e questo provoca una rincorsa verso l’obiettivo, che mette in un angolo un aspetto fondamentale, quello dell’inclusione attiva nel percorso di chi questo obiettivo alla fine deve portarlo a casa.

C’è un aspetto di analisi e di metodologia che dovrebbe essere sviluppato dalle aziende, per capire qual è il modo migliore di raggiungere l’obiettivo. Sappiamo che il Covid ha radicalmente mutato il contesto, ma anche l’oscillare fra il sì e il no allo smart working è il segnale del fatto che non c’è consapevolezza di quale modello organizzativo in questo momento sia più efficace.

Possiamo dirci che un collaboratore che se ne va allo scadere dell’orario di lavoro, senza curarsi delle eventuali ripercussioni del suo comportamento, sia un fannullone. Ma la questione vera è che essere passivi nei confronti dell’obiettivo è un serio danno per l’azienda e per la persona. Perché un collaboratore passivo è un collaboratore che non cresce, e di conseguenza non cresce neppure l’azienda.

Chiedersi cosa significa quiet quitting equivale prima di tutto a cercare di comprendere perché qualcuno scelga di affrontare passivamente il suo ruolo professionale, senza entusiasmo né emozioni.

 

Ci sono strategie concrete per affrontare e contrastare il quiet quitting?


C’è una figura che stenta a entrare negli organigrammi aziendali, perché è vista ancora in maniera fuorviante rispetto alla sua reale attività, ma che potrebbe essere di grande aiuto nel risolvere
il problema del quiet quitting. Parlo di quello che gli anglosassoni chiamano Chief Happiness Officer, che troppo spesso è visto solo come il professionista che organizza gli eventi di team building.

In realtà è un tecnico che studia le metodologie più idonee a far star bene le persone in azienda, tenendo conto del contesto, del tipo di popolazione aziendale e dell’evoluzione della società, ma in modo molto pragmatico, per esempio ragionando, con il mobility manager, su come facilitare gli spostamenti verso l’ufficio.

Certo questa figura può dare il massimo se in azienda c’è una leadership sensibile a questi temi, che ha compreso per esempio che la leadership a distanza ha caratteristiche diverse, deve per forza essere basata sugli obiettivi e sulla fiducia.

Le due cose devono procedere di pari passo: il Chief Happiness Officer deve individuare le soluzioni pratiche, ma la leadership deve creare il contesto per ingaggiare i collaboratori. Perché possiamo pure pensare alla palestra in azienda, ma il nostro collaboratore passivo non ci andrà: sceglierà comunque la strada del quiet quitting, e sarà disposto a pagare di più pur di portare via la mente dal luogo di lavoro.

 

Per costruire una leadership ideale, orientata verso il successo ma anche verso il benessere dei lavoratori, è necessario applicare modelli specifici e offrire ai manager gli strumenti utili a perfezionare il proprio metodo operativo.